La violenza contro le donne e la violenza domestica è determinata in misura rilevante da stereotipi, pregiudizi e discriminazioni di genere. Una ricerca condotta in Italia dall’Università della Tuscia, in partenariato con l’Associazione Differenza Donna ONG e con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità, nell’ambito del progetto “STEP-Stereotipo e pregiudizio” mostra come la narrazione della violenza sulle donne sia ancora impregnata di stereotipi ricorrenti nella stampa italiana e anche nel linguaggio delle sentenze giudiziarie.

La ricerca ha analizzato un totale di 16.715 articoli in un arco temporale di tre anni, dal 2017 al 2019, relativi al fenomeno della violenza di genere. Innanzitutto, lo studio mostra una sovrarappresentazione dei fenomeni di violenza di tipo minore rispetto alla realtà. Il reato più frequente segnalato dalla Procura è il maltrattamento familiare (51,1%), al secondo posto lo stalking (30,7%), al terzo la violenza sessuale (17,1%), al quarto il femminicidio (0,7%), mentre all’ultimo posto la tratta/riduzione in schiavitù (0,4%). Tra i casi di violenza riportati dalla stampa, il reato più diffuso e problematico è lo stalking (53,4% degli articoli), seguito dall’omicidio/femicidio (44,5%). Solo al terzo posto, con il 14%, troviamo i casi di violenza domestica, che rappresentano la grande maggioranza dei reati contro le donne. In secondo luogo, la narrazione è incentrata sulla vittima, la donna, e spesso utilizza un linguaggio colpevolizzante nei suoi confronti. Inoltre, le donne non sono quasi mai protagoniste, ma diventano oggetti passivi della narrazione. Infine, parole come “raptus”, “litigio familiare” o “tragedia della gelosia” sono spesso utilizzate, negando così la natura ricorrente della violenza contro le donne.

Per quanto riguarda il linguaggio utilizzato nei tribunali, lo studio ha analizzato un totale di 283 sentenze dal 2010 al 2020. È stato riscontrato che i “marcatori di credibilità” (ad esempio, emotività, fragilità, pudore, ecc.) sono spesso utilizzati per dare maggiore solidità alle testimonianze delle donne vittime di violenza, contribuendo però a riprodurre una rappresentazione stereotipata delle donne e delle relazioni di genere. Analogamente a quanto vediamo nel linguaggio giornalistico, anche nei tribunali si tende a descrivere la relazione violenta all’interno della trama della “coppia litigiosa”, e sebbene il termine “raptus” non ricorra quasi mai nelle sentenze, è comunque presente la trama narrativa dell’impulso quasi incontrollabile che spinge l’uomo alla violenza, così come la trama della gelosia.

Quanto emerge da questo studio, dunque, è che in Italia la rappresentazione sociale della violenza tende ad attenuare o ad omettere le responsabilità degli uomini protagonisti di episodi e crimini violenti.